Aisi: metti una sera a Roma a mangiare georgiano

di Alex Giuliani

Rece Rock

Prima del campionato Europeo in Germania e prima dell’arrivo in Italia di Khvicha K’varatskhelia, giocatore del Napoli col nome e cognome più impronunciabili della storia del calcio, pochi conoscevano la Georgia.

Altri, anche per colpa di Ray Charles, la confondevano maldestramente con lo stato federato degli USA. Poi ci sono quelli come me che sono cresciuti studiando la geografia negli anni 80 e che ancora non si raccapezzano tra le decine di piccole repubbliche nate dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Insomma, un posto misterioso, neanche si trattasse del Molise.

Quindi ripassiamo tutti insieme: la Georgia è situata nel Caucaso meridionale sulla riva orientale del Mar Nero ed ha come capitale Tbilisi (che può essere pronunciata correttamente solo mentre state facendo il calco dei denti dal vostro odontoiatra di fiducia).

Questo piccolo Stato vanta in realtà una delle cucine più rinomate ed apprezzate nell’est europeo ed una tradizione vinicola antichissima, con la presenza sul territorio di numerosi vitigni autoctoni. Il metodo di vinificazione georgiano è unico e molto particolare: il mosto viene infatti messo in grandi anfore di terracotta (qvevri) che vengono poi interrate per garantire il mantenimento della temperatura in fase di fermentazione, maturazione e affinamento.

Alla luce di tutto ciò, sono rimasto piacevolmente sorpreso dall’apertura, circa due anni fa, di Aisi. Il primo e unico ristorante georgiano a Roma si trova in via Enrico Cravero 22 alla Garbatella, pittoresco quartiere popolare dove sono presenti numerose trattorie di cucina romanesca. Non potrebbe essere altrimenti in una
zona dove una piazza è stata intitolata a Michele da Carbonara.

L’ambiente è molto accogliente fin dall’ingresso, complice un bancone rustico dietro al quale c’è un enorme caminetto dove si potrebbe arrostire uno gnu intero. La sala ristorante al piano superiore è molto bella ed elegante, ha le pareti con mattoni a vista e un arredamento in stile tipicamente caucasico.

La caposala e sommelier Tamar mi accoglie con gentilezza e sorrisi che neanche Giorgia Meloni con Chico Forti e mi spiega nel dettaglio ogni singolo piatto presente nel menu. Accorgendosi della mia espressione catatonica simile a quella di Andreotti colto da ictus transitorio davanti a Paola Perego, mi guida saggiamente nella scelta dei piatti.

Per mia fortuna, come antipasto prendo dei Pkhali (4 deliziose polpette fredde di carote, di barbabietola, di spinaci e di fagiolini) colorati come le teste dei La Sad ma per fortuna meno indigesti. Il mio preferito è sicuramente quello di barbabietola (di un bel colore viola, codice esadecimale #E94196). A seguire delle palline di polenta con cuore di formaggio fuso e salsa di noci e ottimi involtini fritti di carne e riso.

Sono partito col piede giusto e, dopo questi preliminari, posso passare ai piatti forti (e grossi) della tradizione georgiana. I Khinkali sono dei ravioli somiglianti alle borse del ghiaccio che si mettono sulla testa quando hai una febbre tipo Varenne dopo una giornata a Capocotta. Ma a differenza di queste, i kinkhali sono ripieni di carne e brodo roventi, e vanno mangiati rigorosamente con le mani afferrandoli dalla punta, girandoli al contrario e mordendoli cercando contemporaneamente di succhiare il brodo al suo interno.

Una prova di elevatissima abilità che ho fallito miseramente, slogandomi un polso e riducendo la mia camicia come quella di Ted Striker ne ‘L’aereo più pazzo del mondo quando cerca invano di bere un bicchiere d’acqua. A parte la mia evidente difficoltà, ho gradito tantissimo. Così come gradirà Rosella, la titolare della tintoria sotto casa mia.

Il Khachapuri (nella variante adjaruli) è invece una grossa focaccia a forma di barca riempita con una base di formaggio fuso, burro e un uovo crudo aperto sopra che va poi mescolato. Quando la gentilissima Tamar mi ha visto rimestare uovo e formaggio con la grazia di un muratore che cerca di amalgamare la calce nel secchio prima di tirare su un muro, rassegnata ed impietosita ha fatto lei il lavoro per me.

Con grande maestria e senza che nessuno si facesse male. La focaccia si è rivelata particolarmente gustosa. Per dare poi un senso all’enorme caminetto presente al piano di sotto e per avere una scusa valida per farmi servire un altro bicchiere di ottimo vino rosso Mukuzani, ho voluto provare anche il carrè di agnello alla brace. Appetitoso ma, detto fra noi, avrei mangiato altre sedici costolette con la foga di una iena maculata.

Chiudo in bellezza con un caratteristico dessert georgiano, il Pelamushi. Si tratta di una sorta di budino di mosto con noci e crema di vaniglia, delicato e dal particolare retrogusto asprigno. Sono uscito talmente soddisfatto che quando sono passato a Piazza Michele da Carbonara, non ho avuto voglia di un piatto di pasta.

Dopo questa piacevole esperienza, ho disposto sul testamento di essere cremato, esser messo dentro a un qvevri e di essere interrato in Georgia. Sempre che abbiate finalmente capito dove si trova.

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