Incredibile ma vero: nel 2025 c’è ancora chi confonde il whisky con il whiskey

whisky e whiskey

di Bruno Caligiuri

Di recente, sfogliando riviste extra-settore, mi è capitato più di una volta di riscontrare un errore che continua a resistere con un’ostinazione disarmante: confondere whisky e whiskey. Sembra un dettaglio trascurabile, una leggera svista da perdonare passando oltre. In breve: una differenza da poco. In realtà si tratta di uno sbaglio che manifesta superficialità e, in certi casi, ostinata ignoranza. Una gaffe – purtroppo -abbastanza comune, ma grave come non distinguere il Pareggiano Reggiano e il Grana Padano.

Una “e” che cambia tutto

La diatriba tra whisky e whiskey non è solo linguistica, affonda le sue radici in epoche passate. I primi a produrre whisky furono i monaci scozzesi e irlandesi nel Medioevo, poi a un certo punto le strade si divisero. In Scozia e in Canada si scrive whisky. In Irlanda e negli Stati Uniti, whiskey. Una differenza apparentemente sottile, che però riflette approcci produttivi distinti, stili aromatici riconoscibili e una volontà precisa di sottolineare l’origine geografica. La “e” inserita dagli irlandesi – dopo adottata dagli americani – serviva inizialmente proprio a differenziare i loro prodotti, in un’epoca in cui la qualità del whisky scozzese non era particolarmente lodata. Oggi non è più così, anzi i migliori Scotch arrivano a valere migliaia di euro, e quella lettera in più è rimasta, a mo’ di firma.

Differenze di stile, produzione e gusto

Come ribadito, non è quindi solo una questione di grafia. I due prodotti si differenziano per materie prime, metodi di distillazione e invecchiamento, fino a creare famiglie aromatiche molto distanti. Lo Scotch whisky è spesso torbato, distillato due volte e invecchiato in botti usate, conferendo sentori affumicati, secchi, austeri. L’Irish whiskey invece punta su un profilo più morbido e floreale, ottenuto spesso con una tripla distillazione che smussa le asperità e dona più rotondità. Dall’altra parte dell’Atlantico, il bourbon americano – anch’esso un whiskey – viene prodotto principalmente con mais, il che gli dona dolcezza e note di vaniglia e caramello, accentuate dall’uso di botti nuove di rovere bianco carbonizzato. Insomma, solo da ciò si capisce che chiamarli tutti whisky equivarrebbe a confondere una baguette con un pane carasau.

La cultura che accompagna il distillato

Il whisky non è solo un distillato: rappresenta un simbolo identitario. In Scozia diventa parte integrante del patrimonio nazionale, con denominazioni geografiche protette e disciplinari rigidissimi. In Irlanda ha simboleggiato il passaggio tra la tradizione monastica e la rinascita industriale. Negli Stati Uniti il bourbon ha accompagnato la corsa all’ovest e il proibizionismo; oggi costituisce un’industria in piena espansione, fatta di innovazione, storytelling e tradizione.

Il fraintendimento resiste

Ma se tutto questo è noto e documentato, perché nel 2025 c’è ancora chi fa confusione? Colpa, in parte, di una comunicazione commerciale che spesso omologa tutto sotto il generico whisky, in parte di una cultura del bere che troppo spesso privilegia l’effetto sul contenuto. Ma, soprattutto, è una questione di rispetto per il prodotto. Chi ama davvero il mondo dei distillati sa che ogni dettaglio, ogni lettera e ogni sfumatura hanno un peso.

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