Il nuovo (ma non proprio nuovissimo) protagonista nei feed Instagram è verde, polveroso e viene servito in tazze minimal-chic con schiumetta artistica. Il tè matcha è la scoperta sensazionale di chiunque abbia anche solo sfiorato la parola detox in una conversazione, l’elemento irrinunciabile di qualsiasi content creator che decida di dedicare almeno un post a settimana alla morning routine. Ed è praticamente ovunque: nei cappuccini, nei dolci, nelle maschere per il viso, persino nei pancake proteici. Una polvere magica che promette eterna giovinezza, focus mentale e pelle di porcellana.
Ma siamo sicuri che ce ne sia abbastanza per tutti gli influencer del Pianeta?
Dal monastero zen alle influencer
Il tè matcha, in origine, era un vero e proprio rituale. Una polvere sacra ottenuta da foglie di tè verde coltivate all’ombra, raccolte a mano e macinate lentamente tra pietre di granito. Una roba seria, insomma. Nasce in Giappone, soprattutto nella storica zona di Uji, Kyoto, dove ci sono aziende a conduzione familiare con secoli di tradizione che curano ogni fase della produzione per mantenere i più alti standard qualitativi.
Questa tipologia di tè quindi, quella autentica, dovrebbe costare quanto una cena stellata e non quanto un frappè industriale con topping alla vaniglia sintetica. Eppure da qualche anno, complici le mode salutiste e il marketing da manuale, è diventata la protagonista di un consumo smodato e globalizzato. Ed è qui che iniziano i problemi: non si può produrre matcha con l’approccio della coltivazione intensiva. La produzione di questo tè è lenta, delicata e limitata.
L’industria si tinge di verde (ma non significa che sia sostenibile)
Quando una moda alimentare diventa planetaria, le conseguenze ovviamente non tardano ad arrivare. Chi ha già pianto sul destino dell’avocado o sulla quinoa trasformata da cibo locale a superfood da export sa di cosa parliamo. Il matcha è sulla stessa identica strada.

Per tenere il passo con i selfie del mattino e le stories #MatchaTime, i produttori si trovano di fronte a un bivio: restare fedeli ai metodi tradizionali – rischiando di essere spazzati via dal mercato – oppure intensificare la produzione, accorciando i tempi di ombreggiatura, riducendo la qualità delle foglie e, peggio ancora, convertendo terreni da altre colture. E non basta: la febbre da matcha ha portato all’espansione delle coltivazioni in zone meno adatte, dove il rischio di danni ambientali cresce in modo esponenziale
Chi controlla la qualità?
In teoria, il matcha è ricco di antiossidanti, clorofilla, L-teanina e tutte quelle parole che fanno battere il cuore agli amanti del bio. Ma in pratica? Con la corsa alla produzione, si è aperto un varco per l’ingresso di matcha di bassa qualità, spesso proveniente da coltivazioni cinesi poco trasparenti, dove di “verde” c’è solo il colore.
Esistono, certo, produttori giapponesi che resistono con tenacia, praticando agricoltura biologica e seguendo metodi tradizionali. Ma sono l’eccezione, non la regola. Il grosso del matcha che troviamo nei supermercati e nelle caffetterie healthy ha poco a che fare con l’autenticità del prodotto.
Il matcha autentico esiste ancora, ma va cercato con attenzione: il rischio è di confondere una polvere sacra con un semplice accessorio da pubblicare nelle stories.