(…o dei posti che vorresti avere sotto casa)
Ora di pranzo. Comincia a far caldo, sei a due passi dal mare, ma non così vicino da vederlo e non sei nemmeno in paese. Insomma: sei a Pietrasanta, in campagna.
Apri la porta della trattoria: ci sono tavoli di avventori chiaramente abituali. Uno – ad un tavolo da solo – sta chiacchierando con tutti e si interrompe per guardarmi con l’aria del: “E questo adesso chi c…o è”.
Poi ti siedi al tavolo, vedi sulla lavagna gli innumerevoli ingredienti di un’insalata che ora non c’è (si fa solo in primavera quando le erbe sono disponibili). Una signora ti porta l’acqua e ti chiede che vuoi mangiare. Io, come spesso faccio, mi affido. Si comincia.
Quella del Peposo a Pietrasanta è una storia di famiglia: la signora che mi ha accolto è mamma Alessandra, così come quello che mi è venuto a prendere in stazione è babbo Francesco (che scopro avere origini sicule). Il figlio è Manuel Di Gregorio, che di questa stirpe di osti è il cuoco.
E che cucina? La stagionalità, la tradizione, la cultura di un luogo. Anche tradendola. Perché la Galantina che ti porta non è solo di pollo e non ha la gelatina molliccia intorno: il volatile ci sta – con tutta la sua pelle ad avvolgerlo – ma ci sta anche il maiale a dar grasso, il manzo e, super rullo di tamburi, il fegato di coniglio.
Buonissima. Pensi: dove sono atterrato? che già ti arriva un lardo suadente e saporito con la mela in giardiniera. Arrivano anche gli spaghetti olio e pecorino, una sorta di prologo a quello che verrà, ma che invece arriva insieme: una zuppiera con sopra un piatto e un cucchiaio.
Lo apri quando finisci gli spaghetti: dentro ci sta una lezione di antropologia del cibo, il tortello lucchese – sempre da Manuel interpretato – con il ragù: servito così.
Perché nei pranzi familiari si portava tutto a tavola, nessuno, men che meno le donne, si alzava a cucinare espresso. Il piatto rimaneva tiepido, come quello che ci lasciavano le mamme quando tornavamo tardi, i sapori si fondevano. È proprio così: fondente. Un piatto così te lo ricordi, ti resta infisso in testa.
Poi sono arrivati i fegati di coniglio in nuova versione: grigliati e fritti. E anche i contorni, ormai quasi scomparsi dalla cucina italiana: fagiolini, cetrioli, pomodori verdi, dai sapori incomparabili.
Nel frattempo, con il tizio che mi squadrava strano all’ingresso è finita a lazzi e battute, mancava solo il mazzo di carte. Sarà per la prossima volta, che spero sia prestissimo.
I costi: per una persona normale non si superano i 40 euro con i buoni Trebbiano e Sangiovese della casa. Per gli impenitenti (io la prossima volta) è previsto un menu lunghissimo, tipo – vado a memoria – 4 antipasti, 3 primi, 2 secondi, contorni, dolce ed una buona bottiglia a €75. Anche perché di buone bottiglie in carta ne trovate.
P.S. Qui i bagni si chiamano ancora latrine (e questa è un’altra storia…)