di Giulia Mancini
Settembre è bello che avviato e con lui il ritorno sui banchi di scuola. Per “ogni ordine e grado, in tutte le scuole del Regno” si sarebbe detto un tempo, la campanella avrà suonato per tutti scolari e studenti entro il 15 del mese. Vi starete chiedendo perché ho citato un modo di dire sentito solo dalle nonne? Beh, perché c’è una distacco con la realtà, fra scuola e vita odierna, importante.
L’anacronismo è visibile in tanti aspetti della nostra società, ma scuole e mercati eccellono nel mostrarlo.
Riavvolgiamo il nastro e torniamo a quando sui banchi si rientrava il primo ottobre. Giugno, luglio e agosto a casa, libri chiusi e impegni scolastici annullati (per chi non doveva preparare gli esami di riparazione, ovviamente). Mesi di caldo, il mare chiamava, la vacanza prendeva il nome di ‘villeggiatura’ e la famiglia, inclusi i nonni giovani e presenti, si trasferiva fuori città. Tranne il padre lavoratore.
Oggi le cose sono cambiate: le mamme lavorano come i papà, i nonni sono spesso più anziani e talvolta acciaccati. La villeggiatura è un miraggio che nemmeno lo smart working ha saputo lambire, ma bambini e ragazzi sono comunque in vacanza da metà giugno a metà settembre, giorno più giorno meno.
Le polemiche sono innescate su più fronti: dal cosa fargli fare a quanto costano le attività estive, e come gestire l’organizzazione.
Senza entrare nella polemica, non è questo il luogo, è ben adatto un parallelo polemico che sposta il focus su quello che piace agli zillers: il cibo, la cucina, la spesa alimentare. Eccoci al punto, la stessa discrasia temporale della scuola si vive nei mercati rionali, spesso e sempre più abbandonati dagli acquirenti.
C’era un tempo con il commercio di vicinato, tornato in auge con la pandemia, con le botteghe alimentari, il carrello e la sporta, ma soprattutto con le mamme e donne (le stesse di cui dicevo sopra) che potevano fare la spesa tutti i giorni, dopo aver lasciato i figli a scuola e prima di rientrare per le faccende domestiche.
Beh, quel tempo non c’è più. Non esistono più le donne che possono andare al mercato la mattina e se ci sono, sono ridotte a rari esemplari in via di estinzione.
I mercati rionali si animano e popolano prevalentemente al sabato mattina, alcuni sono aperti solo nel fine settimana. Ma alle istituzioni il problema non è evidente? Sarebbe arrivato il momento di rinnovarsi per non morire, cambiare gestione e orari.
Qualcosa di virtuoso si vede: sempre più banchi di gastronomia e prodotti freschi, proposte take away e banchi in cui consumare direttamente. Bello, molto visto all’estero ma bello. Penso a La Boqueria a Barcellona, turistico ma efficace. Penso a Les Halles a Lione, Borough Market a Londra o Torvehallerne a Copenaghen. A questi i nostri mercati, e pecco di provincialismo riferendomi soprattutto a Roma, si sono ispirati. Dove meglio e dove peggio.
Ma non hanno capito che l’orario di apertura è il discrimine. Aprire alle 7 e stare aperti fino alle 14, alcuni 15, pochissimi qualche pomeriggio a settimana, non basta. Oltre all’offerta va adeguata la possibilità di fruirne, altrimenti diventeranno circhi per turisti.
Non mi rassegnerò mai, perché se proprio vogliamo impegnarci nella cultura gastronomica, nella spesa ragionata e nel conservare tratti così distintivi delle città, allora non possiamo pensare di farlo a ore in cui chi ne dove e può godere/usufruire è impegnato in altro.
Ma tocca lavorà!