Quinto quarto: tutto quello che ti puoi mangiare di un animale

Il quinto quarto è la parte più autentica della cucina italiana: un sapere antico che valorizza ogni parte dell’animale, trasformando ciò che un tempo era scarto in piatti ricchi di sapore e memoria. Una lezione di sostenibilità, tecnica e rispetto che continua a raccontare chi siamo.

Quinto quarto: tutto quello che ti puoi mangiare di un animale - immagine di copertina

C’è un’arte dimenticata che profuma di brodo, di fuoco lento e di rispetto per la materia. Si chiama quinto quarto e racconta la parte più autentica della cucina italiana: quella che non spreca, che conosce la fatica e che trasforma lo scarto in ricchezza. È ciò che resta dopo i tagli nobili, una gastronomia viscerale, nel senso letterale del termine, che nasce nei macelli e finisce nei piatti più sorprendenti della nostra storia culinaria. Il quinto quarto è molto più di un insieme di organi commestibili: è una filosofia del cibo che ha a che fare con la memoria, con la sostenibilità e con il gusto senza compromessi. Dentro il cuore, il fegato o la trippa non c’è solo nutrimento, ma un sapere antico fatto di tecnica, pazienza e coraggio.

La trippa

quinto quarto

La trippa è la regina del quinto quarto, il piatto che più di ogni altro racconta la cucina di necessità trasformata in arte. Si ricava dai prestomaci dei bovini – rumine, reticolo, omaso e abomaso – tessuti connettivi ricchi di collagene che, una volta bolliti e stufati, diventano morbidi e capaci di assorbire aromi e condimenti come pochi altri tagli. Magra, proteica, povera di grassi ma ricchissima di storia, la trippa ha nutrito generazioni di lavoratori e oggi torna a tavola come simbolo di rispetto per l’animale e di sapore autentico. Ogni regione le ha dato una voce diversa: a Roma profuma di menta e pecorino, a Firenze si tinge di pomodoro e alloro, a Milano si arricchisce di fagioli nella busecca, mentre nel Sud spesso resta in bianco, con limone e prezzemolo. In ogni versione conserva la sua anima ruvida e confortante, capace di trasformare un umile stomaco in un piatto nobile.

I rognoni

quinto quarto

Il rognone è il rene dell’animale, frattaglia rossa dal profumo deciso e dalla struttura elastica che, trattata con rispetto, regala una sapidità pulita e profonda. I più delicati sono quelli di vitello, compatti e vellutati; manzo e cavallo spingono su note più selvatiche. Si scelgono freschissimi, con grasso bianco e sodo, si incidono in verticale, si eliminano pellicine e parte interna spugnosa, poi si fanno spurgare in acqua fredda acidulata con limone o aceto per smorzare l’odore. In cottura non amano le attese: fiamma viva e pochi minuti, altrimenti diventano gommosi. Danno il meglio trifolati con aglio e prezzemolo, fiammeggiati al brandy con burro nocciola, alla griglia lasciando l’interno rosato, oppure in umido con vino rosso fino a ottenere un fondo lucido e avvolgente. Intorno corre un grasso, bianco e friabile, che altrove finisce in pasticceria salata e pudding.

Il cuore

quinto quarto

Il cuore è un muscolo denso di fibre, e proprio per questo richiede attenzione: cotto troppo diventa gommoso, cotto bene si scioglie in bocca lasciando un sapore ferroso, deciso ma elegante. Appartiene di diritto al quinto quarto, ma ha una dignità tutta sua, perché unisce l’anima delle frattaglie alla consistenza della carne magra. È povero di grassi, ricco di proteine ad alto valore biologico e di ferro, carico di vitamine del gruppo B che ne fanno un alimento nutriente. Per valorizzarlo servono due vie opposte: una scottatura rapida in padella o una lunga cottura in umido che lo renda tenero e profondo. Con il cuore si ritrovano piatti dimenticati e nuove interpretazioni d’autore: a Venezia si cucina con cipolle dolci e un’ombra di aceto, altrove si arrostisce come una bistecca, si trasforma in spezzatino o si serve a fettine sottili su un letto di cipolle caramellate. La sua carne rosso cupo si lega bene a funghi, pomodoro e spezie calde, che ne ammorbidiscono la forza. Pulirlo con cura, eliminando tessuti connettivi e grasso biancastro, è il primo atto di rispetto verso un ingrediente che chiede precisione.

I polmoni

quinto quarto

I polmoni appartengono al lato più dimenticato del quinto quarto. Erano il pasto dei lavoratori, la parte che nessuno voleva ma che, con il tempo e il fuoco giusto, diventava conforto. Quelli di vitello sono i più delicati: magri, ricchi di proteine e sali minerali, quasi privi di grassi. Hanno una consistenza soffice e un sapore lieve, che si presta tanto alle cotture veloci quanto agli umidi lenti. Prima di finirli in padella vanno sbianchiti in acqua, aceto o latte per pochi minuti: un rito antico che serve a purificarli, a liberarli da impurità e odori. Poi si tagliano a pezzi e si lasciano rosolare nel burro, sfumati col vino e avvolti da un brodo caldo. È così che nascono piatti come la fongadina veneta o i morsetti umbri, ricette di campagna che profumano di stufe e polenta. Nei fritti misti del Nord tornano a nuova vita: croccanti fuori e teneri dentro.

Il diaframma

quinto quarto

Il diaframma è il muscolo che separa il torace dalla pancia, un taglio di terza categoria solo per convenzione, perché nel piatto vale molto più del suo prezzo. È la bistecca dei poveri, ma oggi è la carne che gli chef mettono in carta per ricordare che il sapore non è una questione di lusso. Piccolo, allungato e sottilissimo, rosso scuro e intriso di ferro. Da qui la sua fibra soda ma tenera, attraversata da un grasso discreto che le regala succulenza. Prima di cuocerlo, va liberato della membrana che lo ricopre, poi basta un filo d’olio, qualche erba aromatica e una griglia rovente. Pochi minuti per lato, al sangue, e sprigiona un profumo intenso, quasi selvatico. Gli argentini lo chiamano entraña e lo trattano come un culto; in Italia finisce nel ragù bolognese o negli straccetti romani, e chi lo prova una volta non lo dimentica più.

Il fegato

quinto quarto

Il fegato è l’icona assoluta del quinto quarto, la frattaglia che più di ogni altra unisce nutrimento e memoria. Ricco di ferro, vitamine e proteine, poco grasso ma potentissimo nel gusto, è un organo che chiede precisione. Quello di vitello, chiaro e tenero, è il più delicato; quello di maiale e di pollo porta con sé i sapori della campagna, delle cucine lene con il fuoco basso e il profumo di cipolla. Il segreto è il tempo: pochi minuti in padella e il fegato resta morbido, un attimo di troppo e diventa gomma. Le sue ricette sono una mappa del Paese: a Venezia si scioglie tra le cipolle bianche nel celebre fegato alla veneziana, a Vicenza sfuma nel vino bianco, a Genova si accompagna all’agliata, salsa d’aglio e pane. In Toscana diventa paté di fegatini, crema sapida e sontuosa da spalmare sul pane sciapo, mentre nelle campagne si trasforma in fegatelli avvolti nella rete del maiale, fritti o conservati sotto strutto. È la frattaglia più civile che esista: forte, elegante, intrisa di storia.

La milza

quinto quarto

Tra le frattaglie, la milza è quella che più divide: il suo sapore ferroso e dolciastro conquista chi cerca autenticità e spaventa chi si ferma all’idea. Eppure è una carne nobile, povera di grassi, ricchissima di ferro e proteine, leggera e versatile. Di solito bovina, ma anche suina o ovina, la milza vive nelle cucine regionali come simbolo di recupero e sapore intenso. Va cotta con cura, perché la magrezza la rende fragile: una bollitura o una rosolatura rapida, aromi forti e un tocco di vino bastano per trasformarla in un piatto profondo e speziato. In Sicilia è protagonista assoluta del pani câ meusa, il panino con milza e polmone saltati nello strutto, servito schittu con limone o maritatu con caciocavallo. A Salerno si riempie e si cuoce lentamente nel mosto e nell’aceto nella milza ‘mbuttunata, in Piemonte diventa la cima del povero, farcita con carne, pane e uova, mentre in Toscana si trasforma in paté, una crema scura e sapida da spalmare sul pane sciapo.

L’intestino

quinto quarto

L’intestino di vitello, cuore della leggendaria pajata, è uno dei capolavori più discussi del quinto quarto. Pulito, lavato e cotto con pazienza, diventa un boccone tenero e cremoso, dal sapore pieno e ancestrale. È la prima parte dell’intestino tenue del vitello da latte, e nella versione autentica conserva il suo chimo, quel latte ancora dolce che in cottura si rapprende e diventa una salsa naturale, densa e saporita. Con esso nascono i celebri rigatoni con la pajata, piatto-simbolo della Roma popolare, che unisce pomodoro, vino bianco e pecorino in un sugo potente e irresistibile. Ma l’intestino non vive solo con i rigatoni: può essere cotto in umido, al forno con le patate, alla brace o fritto in pastella, dove diventa croccante fuori e morbido dentro.

I testicoli

quinto quarto

Nel quinto quarto i testicoli, detti granelli, sono l’ultima frontiera del coraggio e della tecnica: consistenza setosa dopo la cottura, gusto delicato con una sfumatura ferrosa, sorprendentemente pulito. Si scelgono freschissimi, si incidono per eliminare la pellicola esterna, poi si lasciano spurgare in acqua e aceto o si sbollentano per pochi minuti prima di affettarli; il taglio a rondelle aiuta la tenerezza. La frittura impanata è un classico che li rende croccanti fuori e cremosi dentro, ma funzionano anche saltati al burro e vino, alla griglia o in umido speziato. La tradizione italiana li mette nel fritto misto e nella finanziera piemontese, li troviamo anche nella tortilla del Sacromonte a Granada; altrove li chiamano prairie oysters o huevos de toro.

La mammella

quinto quarto

La mammella, o poppa, è la parte più delicata e inattesa del quinto quarto. Tenerissima, dal gusto latteo e vellutato, è un taglio che un tempo parlava di fame e ingegno, oggi di memoria e raffinatezza. In Valle d’Aosta prende il nome di teteun, salume antico e prezioso ottenuto da mammelle di vacca salmistrate, cotte e pressate come un prosciutto: il risultato è un gioiello d’alta montagna dal profumo d’erbe e un sapore che ricorda il foie gras. Ma la poppa vive anche altrove: nei mercati di Firenze si trova già lessata, affettata e cosparsa di sale; nel Sud, la zizza di pecora si serve tiepida con olio e limone. C’è chi la prepara fritta, dorata fuori e morbida dentro, chi la lessa più volte per stemperare il gusto del latte, e chi la serve in umido con verdure e vino bianco. È carne che chiede lentezza, rispetto e curiosità.

Il cervello

il cervello

Delicato come burro eppure pieno di carattere, il cervello è la frattaglia che divide. Si lavora con mani leggere: risciacquo accurato, breve sbianchitura in acqua con limone o aceto per rassodarlo, rimozione della sottile membrana esterna, poi cottura rapida per non perderne la cremosità. In tavola dà il meglio fritto – alla romana in pastella o alla milanese impanato nel burro spumeggiante – ma sa essere elegante anche al burro e salvia, gratinato o semplicemente bollito e condito con una citronette. Nella tradizione italiana è presenza fissa del fritto misto piemontese, è presente da secoli dentro la cima alla genovese come legante nobile, e si trova anche nelle versioni fiorentine e lombarde. È nutriente e ricco di minerali, ma anche ricco di colesterolo. Quando è fresco, profuma appena di carne e si scioglie in bocca.

La lingua

la lingua

Tra le frattaglie, la lingua è il taglio più sottovalutato: muscolo succoso, ricco di collagene, tenerissimo se trattato con metodo. Si parte da una lunga lessatura in brodo aromatico con sedano, carota, cipolla, alloro e pepe, poi si elimina la pelle esterna mentre è ancora calda per svelare una polpa rosata, setosa, pronta a farsi affettare. In Italia veste mille identità: bollita con salsa verde nel carrello dei bolliti piemontesi, salmistrata alla veneta, in umido alla genovese con cipolle, nel panino fiorentino con salsa verde o piccante. Fuori confine diventa gyutan alla griglia in Giappone o tacos de lengua nelle cucine latinoamericane. Tagliarla sempre di traverso, servirla calda o fredda con agrumi: la lingua assorbe gli aromi come una spugna nobile e restituisce un gusto pieno, pulito, che fa pace con l’idea di quinto quarto.

La coda

la coda

Tra i tagli più umili e nobili del quinto quarto, la coda è un trionfo di lentezza e sapore. Fatta di ossa, nervi e muscoli guarniti di un velo di grasso, diventa tenera solo dopo lunghe ore di cottura, quando il collagene si scioglie e trasforma il sugo in una crema lucida e densa. È la regina delle osterie romane nella sua versione più celebre, la coda alla vaccinara: un piatto nato tra i vaccinari di Testaccio, che venivano pagati in scarti di macellazione e li trasformavano in stufati ricchi di sedano, pomodoro, vino e cacao amaro. Povera d’origine ma regale nel gusto, la coda ha conquistato anche la borghesia, simbolo della cucina di pazienza e di recupero. Oggi si cucina anche in umido, nel bollito, o in insalata con fave e piselli, ma resta soprattutto una lezione di tempo e mestiere.

Le zampe

le zampe

Umili, ossute e piene di cartilagine, le zampe sono una delle più antiche incarnazioni del quinto quarto. In campagna non si sprecava nulla, e dalle zampe — di gallina o di vitella — nasceva un brodo denso, lucido, capace di nutrire. Le zampe di gallina, pulite con cura, fiammeggiate e private delle unghie, bollono a lungo con sedano, carota e cipolla fino a rilasciare il loro collagene, che dona al brodo quella consistenza vellutata e confortante. Dalla Toscana arriva anche la tradizionale zampa di vitella alla fiorentina, cotta lentamente con verdure, pomodoro, uova e parmigiano fino a diventare un piatto cremoso da servire su pane tostato. Povero di carne ma ricchissimo di sapore, questo taglio racconta la sapienza contadina.

Gli occhi

gli occhi

Forse il taglio più insolito del quinto quarto marino, gli occhi di pesce sono una sorpresa di gusto e consistenza. Gelatinosi fuori, con un cuore più sodo e lattiginoso, concentrano tutto il sapore del mare e la morbidezza del collagene. In Oriente sono una prelibatezza: in Giappone si servono bolliti in salsa di soia e mirin, in Malesia finiscono nel curry di testa di pesce, mentre in America Latina e nei Caraibi compaiono fritti o in zuppa. Da noi restano un ingrediente raro, ma chi osa scopre una texture umami e vellutata che arricchisce brodi e fumetti, addensandoli naturalmente. Cotti, fritti o arrostiti insieme alla testa, gli occhi raccontano una cucina senza sprechi, dove anche lo sguardo del pesce diventa boccone di mare.

La matrice

Tra le frattaglie più rare e curiose del quinto quarto, la matrice – ovvero l’utero del bovino – è un segreto gelatinoso custodito dalla cucina toscana. A Firenze, dove la cultura del recupero ha trasformato lo scarto in arte, la matrice è un piccolo culto di bottega: si lessa a lungo fino a diventare tenera e lucida, poi si serve a tocchetti, semplicemente con olio buono, sale, pepe e qualche goccia di limone. Il suo sapore è delicato ma profondo, tra la trippa e la poppa, con quella consistenza morbida che racconta pazienza e rispetto per ogni parte dell’animale. In alcune versioni si cuoce in umido, nel pomodoro e nel vino, fino a diventare un sugo denso da piatto operaio.

Le animelle

animelle

Tra le frattaglie troviamo anche le animelle: timo dei vitelli più giovani – in molte zone anche ghiandole salivari – bianche, spugnose, dal gusto lattoso e dalla cremosità irresistibile. Si lavorano con pazienza: un lungo ammollo in acqua e aceto o nel latte per lo spurgo, una rapida sbianchitura per rassodarle, la pellicina via e un riposo sotto peso per renderle compatte. Da qui si fa sul serio: fritte alla romana dorano in pochi minuti e si sciolgono al morso, al burro sfumate al bianco diventano velluto, in fricassea prendono luce agrumata, alla griglia si caramellano e profumano di brace, al forno legano funghi e besciamella in una colata goduriosa. A Firenze finiscono nel gran fritto con cuore e cervello, a Roma si uniscono ai carciofi, nei risotti regalano una rotondità da alta scuola. Nutrienti e ricche di colesterolo, sono un peccato ben ponderato.

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