Se nelle foto di questo articolo, volutamente anonime, riconoscete la vostra pizza, vi prego non vi inalberate. Non ce l’ho con voi nello specifico. Non penso neanche che le vostre pizze non siano buone, anzi.
Non sapete quanti dei miei più cari amici pizzaioli – bravi e bravissimi – sono spesso incappati nella trappola di cui vi sto per parlare, ma gli voglio tanto bene lo stesso e nessuno di loro è meno talentoso perché ha ceduto al lato oscuro. Ma di lato oscuro si tratta e ora ne dobbiamo parlare.
C’è stato un tempo in cui la pizza era un semplice impasto di farina, acqua e lievito fatto maturare (ad essere fortunati), sul quale venivano adagiati ingredienti magari anche di qualità ma un poco a casaccio, che prima si cuocevano meglio era, per poi essere lanciate come dischi volanti sulle tavolate presenziate da clienti frettolosi e chiassosi, insieme a qualche fritto col centro surgelato (supplì o frittata di pasta, dipende dalla regione). Certo che sto esagerando, ma rende l’idea.
Poi un paio di cavalieri dall’armatura d’oro e d’argento, tra Napoli e Roma, forse di nome Giancarlo Casa e Enzo Coccia, hanno deciso che anche la pizza poteva essere trattata con cura, che aveva un potenziale d’eccellenza, che poteva rompere i margini della tradizione e diventare qualcosa di mai visto prima: la pizza moderna che ora domina la scena in ogni regione italiana.
In quest’ottica, la pizza ha avuto una promozione in stile Sogno Americano: da prodotto da forno da consumare in fretta si è trasformata (suo malgrado?) nello storytelling di territori e tradizioni, di prodotti e produttori, di grandi chef e pizzaioli di successo, salendo alla ribalta dei dibattiti tra foodies. E questo è bello, intendiamoci.
Ma veniamo al punto
L’incontro della pizza con il mondo della cucina, intreccio chiave di questa fase di splendore, ha avuto tante derive, spesso interessanti ma altre inquietanti. È venuto menu uno dei tabù storici della grande pizza, ossia che tutti gli ingredienti devono essere posizionati a crudo sul disco e cuocere nel forno, o aggiunti in uscita. Questo limite era un campo di sfida: solo i pizzaioli di talento potevano eccellere seguendo le regole ed era una lotta alla pari giocata sullo stesso campo.
Ma crollando gli argini, abbiamo visto succedere qualsiasi cosa: ingredienti iper lavorati in cucina e poi aggiunti sulla pizza ancora cruda, antiche ricette di pora nonna sublimate per creare pizze dal sapore ancestrale, esperimenti a volte riusciti altre volte no, ma con un sempre maggior numero di pizzaioli disposti a rischiarsela anche senza saper cucinare. Che voglio dire, neanche a far così.
E poi loro: le CREMINE: di zucca, di speck, di parmigiano, di fave e pecorino, di baccalà, di noci e caprino, di pesche e albicocche, di gorgonzola e banana e di tutto ciò che vi suggerisce la fantasia.
Io non so chi sia stato il primo ad avere l’intuizione, se i grandi della pizza moderna sù al nord o quelli della tradizione giù al sud, fatto sta che se all’inizio la cosa era geniale e anche piacevole, da un giorno all’altro queste salse colorate hanno preso il potere sui banchi dei pizzaioli diventando l’incantesimo che trasforma una pizza qualsiasi in una pizza gourmet. Lo sapete che è vero.
Ora, non sto dicendo che bisogna rinunciare a queste benedette cremine. Non del tutto. Però vorrei fare un appello. Potreste, o voi geni del cerchio infarinato, valutare di volta in volta se questa cremina sia DAVVERO necessaria?
Per amor d’onestà, domandatevi: potrei riuscire a creare lo stesso abbinamento senza frullare ingredienti insieme per trasformarli in un semi-liquido (o a volte semi-solido) colorato?
Se la risposta è NO, allora cremina sia. Me se è SÌ vi prego esitate, desistete, reinventate.
Oppure ignoratemi, non c’è problema. Era per farsi due risate.